I Macchiaioli al Caffè Michelangiolo di Firenze
Fu in Firenze, al Caffè Michelangiolo intorno al 1852, che cominciarono a riunirsi alcuni artisti, dapprima fiorentini in seguito provenienti da diverse regioni italiane, che scelsero quel luogo d’incontro privilegiato per le loro discussioni sui nuovi fermenti artistici che connotarono il gruppo innovativo dei “macchiaioli”.
Compare nel 1855, per la prima volta, nelle parole di Diego Martelli, il termine “macchia”, che diventerà il simbolo di un modo di dipingere rivoluzionario e avanguardistico, nato come bisogno di verità immediata in rapporto con l’esperienza del quotidiano, che si pose come anello di congiunzione tra le ricerche naturalistiche di quel secolo e l’inizio della cosiddetta Arte Moderna, come un momento centrale di rinnovamento estetico nell’arte figurativa italiana dell’Ottocento. Giovanni Fattori dirà che “la macchia nacque in Firenze al Caffè Michelangiolo e non altrove”1, anche se la provenienza degli artisti al Caffè da ogni parte d’Italia attesta come il dibattito di quegli anni fosse in realtà frutto di tutte le migliori energie nazionali e come gli esiti che esso dette e la stessa scuola macchiaiola in realtà vada considerata un prodotto comune della cultura artistica italiana.
In questo clima si definisce quindi la nuova pittura, nella quale il tema del vero si articola nei termini di un rinnovamento tecnico e percettivo che si fonda su una visione strutturata per zone cromatiche, tra luci e chiaroscuri, rifiutando l’idea accademica di forma e privilegiando l’immediatezza della stesura pittorica esibita come elemento di rottura.
Nel 1960 Maltese, con acutezza e in modi articolati, bene interpreta la complessità di tali fermenti : La “rivoluzione della macchia” […] ebbe di mira fin dall’inizio ed effettivamente costituì il superamento delle divisioni e delle “scuole regionali” e persino di quelle troppo limitatamente “nazionali”, senza tuttavia negare la naturale individua particolarità dei momenti, dei climi, dei luoghi, delle interpretazioni. […] Toccò a Firenze e alla Toscana ospitare più a lungo e generosamente di altri luoghi i protagonisti della vicenda […] Ma si ingannerebbe chi ritenesse di poter circoscrivere per questo ai soli “macchiaioli” toscani […] il senso e il valore della nuova arte”2.
A quanto si sa, risulta che i primi ad esordire con i caratteri della nuova arte, furono con Serafino De Tivoli, Giovanni Fattori di Livorno, Telemaco Signorini, Odoardo Borrani, Adriano Cecioni, il Sernesi, l’Abbati, il Cabianca, il Costa, il Bechi, Silvestro Lega, Cristiano Banti, il Moradei, Vito D’Ancona, Saverio Altamura ed altri dei quali poco o nulla è rimasto e così la storiografia del primo Novecento ha identificato tale nucleo con il movimento vero e proprio apprezzandone la qualità dei risultati pittorici, anche quando la partecipazione di questi ed i loro contributi all’elaborazione teorica, siano stati di breve durata.
“Il vero risulta da macchie di colore e di chiaro-scuro, ciascuna delle quali ha un valore proprio che si misura col mezzo del rapporto. In ogni macchia questo rapporto ha un doppio valore, come chiaro o scuro e come colore”.
Dunque gli artisti iniziarono a privilegiare lo studio del vero; il paesaggio risulta il soggetto più consono a interpretare emozioni e stati d’animo, nella tensione del rinnovamento del quadro di storia e nel superamento dei valori della tradizione romantica.
Nel 1884 Adriano Cecioni, critico d’arte e teorico della “macchia”, grande scultore ed anche pittore, tracciando un profilo di Giovanni Costa, aveva dato un significato più ampio al concetto di “macchia” e di rinnovamento : “Se in Italia non c’è, come si dice, un’arte nè una letteratura italiana, c’è peraltro un’arte toscana, che è quella formata dai macchiaiuoli; e io chiamo artisti toscani quelli che, anche essendo nati al di fuori, sono autori di un’arte corrispondente a quell’ordine di idee, come il Costa romano, il napoletano Abbati, il De Nittis di Barletta, prima però che andasse a Parigi, il Cabianca veronese, il Bruzzi di Piacenza, il De Gregorio napoletano, il Lemon inglese, il Tedesco e il Rossano napoletani, il Rivalta genovese, il Grita siciliano, il Calderini di Torino, ecc. ecc.”3
Dunque andrebbero compresi in tale ambito pure quegli artisti che, benchè provenienti da altre regioni o nazioni, hanno comunque operato, per periodi più o meno lunghi, a contatto con l’ambiente fiorentino, offrendo un loro contributo significativo.
Già a partire dall’inizio degli anni Sessanta, l’esperienza “macchiaiola” si potrebbe ormai considerare conclusa negli assunti unitari di problematiche e di ricerche, e il rinnovamento artistico, seguitando ad evolversi, da allora in poi appare ben differenziato nelle singole personalità.
Del resto Ferdinando Martini, uomo politico e critico amico di alcuni dei Macchiaioli, riferendosi all’inizio di tale movimento, scrive nel 1865 : ” La macchia, della quale si ebbero i primi saggi tra noi nelle esposizioni del 1855 […]4 “. Lo stesso Signorini, a proposito dell’ambito temporale entro cui si colloca la nuova scuola, scrive nel 1874 su “Il Risorgimento” : La macchia che nacque nel 1855 […..] verso il 1862 […..] morì senza onor di sepoltura”.5
Dopo gli anni di formazione ideologica anche in contatto con i fermenti d’Oltralpe (Degas nell’estate del 1858 è presente in Italia sostando a Firenze presso la famiglia Bellelli), i pittori del cenacolo macchiaiolo presero quindi strade diverse, frequentando anche ambienti diversi.
1 Cfr. R. Monti, Le mutazioni della Macchia, Roma, De Luca, 1985.
2 1960, C. Maltese, Storia dell’Arte Italiana 1785-1943, Torino, Einaudi, pp. 169-170
3 1905, A. Cecioni, Scritti e Ricordi, Firenze, Tipografia Domenicana, p. 328
4 Cfr. A. Baboni, La Pittura Toscana dopo la Macchia, Novara, De Agostini, p. 8
5 Ibidem, p. 8.