Mario Puccini (Livorno 1838 – Firenze 1920)

Mario Puccini nasce a Livorno il 28 giugno 1869 da Domenico e da Filomena Andrei, quinto di sei fratelli.
Inizia a disegnare e dipingere sin dall’adolescenza, contrastato dal padre, fornaio, che in seguito gestirà la trattoria La Bohème nel centro di Livorno. Compiuti i corsi di una non identificata Scuola Tecnica del Comune di Livorno, il giovane Mario ottiene l’autorizzazione paterna a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Firenze a cui si iscrive nel 1884, sembra su consiglio di Giovanni Fattori, frequentando la scuola del maestro livornese assieme a Nomellini, Pellizza da Volpedo, Micheli ed altri. Nel 1887 è iscritto alla Scuola di Figura, Copia dal Vero, presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze; nello stesso anno partecipa per la prima volta ad una pubblica Esposizione presentando uno Studio di testa ; è datato 1889 un suo suggestivo dipinto La fidanzata di ritorno dalla messa , e 1890, un Ritratto di donna di profilo (cfr. 1989,Baboni, pp. 180,181 Figg. 3,5), ambedue ancora caratterizzati da stesure ad impasto di matrice fattoriana.
Nel 1890, dopo aver vinto un concorso bandito dal Ministero della Pubblica Istruzione per la creazione di un metodo di proiezioni ortogonali, consegue il Diploma dell’Accademia e quindi l’abilitazione all’insegnamento del disegno. Nel 1892, il Tinti (1931) lo cita nuovamente a Firenze, iscritto alla Scuola libera del Nudo, presso l’Accademia. Nell’autunno del 1893, forse per i troppi impegni e per cause che, secondo quanto riportato dai biografi sconfinano nell’aneddoto, Puccini subisce un tracollo psicologico che ne causa il ricovero all’ospedale Civile di Livorno, quindi il 4 febbraio 1894, all’Ospedale Psichiatrico San Niccolò a Siena, dove rimane internato sino al 5 maggio 1898.
Degli anni che vanno dall’uscita dal manicomio al 1906, si hanno scarse notizie; è ricordato mentre aiuta il padre nella gestione della trattoria, pur non tralasciando l’applicazione alla pittura. Nel 1901 partecipa alla III Esposizione d’Arte di Livorno, con il dipinto Paese-Gabbro; del 1902 è il dipinto Darsena, datato e dedicato a Mario Galli, che esprime già i tratti tipici di quella che sarà in seguito la produzione pittorica dell’Artista, caratterizzata da salda costruzione plastica dell’immagine entro cui il colore si accende di smalti e vibrazioni, liberandosi da condizionamenti naturalistici.
Alla morte del padre (1906), essendo la madre già deceduta nel 1901, Puccini opera una scelta definitiva a favore della pittura; in quell’anno infatti egli lascia la famiglia per andarsene a vivere da solo prendendo in affitto un bugigattolo in Borgo Cappuccini, dove si guadagnerà da vivere costruendo aquiloni e marionette per i ragazzi, cifre ed ornati per le ricamatrici, insegne per i negozi. Dopo il 1909 inizia a frequentare il Caffè Bardi , in piazza Cavour, ritrovo degli artisti livornesi per le cui colonne appronta, all’incirca nel 1911, almeno due dipinti ed altrettanti carboncini di grandi dimensioni, su committenza di Ugo Bardi, proprietario del caffè.
Da questi anni in poi ha inizio la fortuna dell’Artista ; le sue opere sono apprezzate anche a Firenze tramite collezionisti e mercanti quali Angelo De Farro, Mario Galli , Ermando Fanfani, Checcucci, Romolo Monti e l’industriale Querci. L’amico pittore Lloyd, suo estimatore, scrive :”Oscar Ghiglia, altamente apprezzando quei quadri, dice che sono di primo ordine, e Gustavo Sforni desidera avere alcune di quelle opere nella sua importante, raffinata collezione ” (cfr, 1951, Lloyd, Tempi andati).
Il pittore Benvenuti ed il letterato Pierotti Della Sanguigna, formano una specie di società per il commercio e la diffusione delle opere di Puccini anche a Firenze ; “La Fontina [del molo vecchio] va al Salviatino ed entra a far parte della cosmopolita collezione di Ugo Ojetti. Altri dipinti vengono collocati tra le più scelte opere di Fattori e di Abbati nella collezione di Luigi Sambalino. […….………] Sforni prende l’automobile e va a Livorno con Ghiglia per conoscere il pittore così originale, così veramente pittore.”(1951, Lloyd, Tempi andati)
Migliorate le sue condizioni economiche, Puccini lascia la bottega in cui abitava per andare a vivere nel fondo che era stato di un ciabattino, al quartiere “Gigante”vicino alla Fortezza Nuova ; quindi si trasferisce in Piazza del Cisternone, in un alloggio interno più accogliente, che fungeva da portineria.
Si allontana raramente da Livorno di cui percorre coste e campagna a trarre spunti per la sua pittura sempre più accesa nella rappresentazione delle tipiche tematiche di barconi all’ormeggio, scorci di paesaggio, angoli di paese ma soprattutto dell’amata Torre Medicea, ripresa da ogni angolazione, architettura solitaria e maestosa che incanta e suggestiona l’animo del pittore.
Durante una visita a Firenze, il collezionista Sforni gli mostra la propria raccolta di dipinti ed alcune fotografie di opere di Van Gogh e di Cézanne verso cui Puccini mostra scarso interesse.
Nel 1910 è documentato un suo primo viaggio a Digne, paese delle Alpi Marittime francesi, per fare da testimone alle nozze del fratello Amedeo. Nel 1912 partecipa all’Esposizione di Belle Arti di Livorno, quindi si reca di nuovo a Digne per alcuni mesi, ospite del fratello, dove la sua tavolozza, per quelle poche opere che ci sono rimaste, risulta connotata da più chiare , meno accese tonalità.
Nel 1913 e 1914, espone di nuovo a Livorno, Firenze e Roma; nel 1915 è presente con il dipinto Scaricatori , alla “Secessione Romana”, nella Sala Internazionale.
Durante gli ultimi anni l’Artista si reca a dipingere in Maremma, intensificando il lavoro in modo quasi febbrile, all’aperto e nelle più variabili condizioni atmosferiche, peggiorando così il suo già precario stato di salute che si aggrava poi rapidamente a causa di un’infezione polmonare; ricoverato all’Ospedale Santa Maria Nuova in Firenze, il 17 giugno, muore il giorno seguente, 18 giugno 1920.
La salma viene trasferita a Livorno al Cimitero della Misericordia da dove, nei primi mesi del 1988, per l’impegno del Gruppo Labronico, del Presidente Alberto Zampieri e del Segretario Dario Bonetti, viene tumulata nel Famedio di Montenero.

Definito come uno dei pochi e rari “fauves” italiani, affascinante colorista, ingiustamente sottovalutato per un certo periodo dalla critica, forse per il suo comportamento riservato e strano, si avvicina istintivamente a certe soluzioni d’avanguardia nell’uso espressivo e spaziale delle linee pure, riabilitando la funzione coloristica in modo del tutto spontaneo, avvicinandosi inconsciamente pure a certo Espressionismo angosciante della “Brücke”, che introdusse nell’arte i tormenti freudiani dell’inconscio ed un senso emozionale del colore, manifestazioni di una cultura incentrata sull’indagine degli stati d’animo e delle sensazioni, corrispondenti ad una nuova libertà espressiva.

Allo stesso tempo, si affianca alle complesse ricerche di tipo divisionista della Scuola Toscana – rappresentata nei primi anni Novanta da Nomellini, Kienerk, Müller ed Angelo Torchi, quindi da Amedeo Lori e, nei primissimi anni del Novecento, da Benvenuti, Lloyd e Chini – che tende a liberare il colore da precisi riferimenti figurativi. La pittura di Puccini sembra però muoversi al di fuori delle problematiche intellettuali e culturali delle nuove ricerche a favore di una libera istintività che utilizza il colore in un nuovo farsi lirico, drammatico, vitale e poetico ; è tensione emotiva sul vero priva di citazioni dotte, scaturita da un sentimento figurativo che, pur ispirato da schemi di chiara derivazione macchiaiola, mostra un tessuto coloristico di incredibile ricchezza e di straordinaria suggestione.

Andrea Baboni

[Not a valid template]